Nel medioevo Palermo era una città largamente orientale sul tipo di Damasco, con case basse e cortili, piccole strade articolate su vie più grandi e una strada maggiore, che è il Cassaro. E, poi, tutto un insieme di piccole botteghe e di venditori di cibo di strada, tradizione dei paesi dove c’è poca legna e dove si comprano gli alimenti già cucinati, un uso che permane ancora oggi.
La piazza e i mercati invece erano i luoghi dello scambio e della vendita dei prodotti alimentari”. Domani pomeriggio alle 17.30, Henri Bresc, considerato fra i più significativi studiosi della Sicilia medievale, torna al Palazzo Reale di Palermo per presentare “Il cibo nella cucina medievale” (Palermo University Press). Il volume costituisce un’importante testimonianza degli usi alimentari e, quindi, anche della cultura e dei modi di vivere di un’isola e di una città, al centro del Mediterraneo, meta di costante immigrazione. I siciliani parlavano la lingua araba, ma erano cristiani. Nel XII secolo volutamente i normanni hanno preso pezzi di cultura araba proveniente dall’Africa del Nord e dall’Egitto, in particolare, anche elementi gastronomici. “Il cibo è un dato – prosegue Bresc – che si trasmette a lungo. Per strada si vendevano frattaglie e carne bollita con le spezie. La Sicilia, che produceva ed esportava grandi quantità di grano, preferiva il pane bianco. I suoi abitanti mangiavano manzo, tonno salato, burro, verdure, legumi e pesce soprattutto nei giorni di digiuno. Bevevano vino. I Siciliani erano poveri culturalmente, ma in tempi normali non avevano fame. Erano operai liberi e, come tali, in condizione di contrattare per qualità e quantità il paniere del loro sostentamento. Poi c’erano i dolci. Già nel 935 l’isola produceva canna da zucchero e lo esportava in Africa del Nord, dove però parte della gente lo rifiutava perché coltivato da eretici. Il pesce essiccato e salato veniva invece esportato ad Amalfi, Pisa e perfino ad Avignone”.
Quali sono i cibi che provengono dalla tradizione araba? “In età musulmana si cibavano soprattutto di montone duro e cotto a lungo. In epoca normanna cambia soprattutto il consumo delle proteine animali. Si mangiava carne di uccelli e di agnello alla griglia o allo spiedo, manzo. Alla fine del ‘200 scompare il pane di orzo, sostituito dal frumento raffinato. La cassata, per esempio, non è un piatto arabo. È un dolce di origine romana.
Anche il cuscus è un piatto tipicamente medievale presente nell’isola, dove veniva chiamato semolella”. Quali erano le malattie causate da una cattiva alimentazione? “La gotta, le cardiopatie e le affezioni alla vescica. Ma vorrei sottolineare che era un’alimentazione sorvegliatissima. C’era grande attenzione alla qualità del cibo e alla salute dei cittadini. La preparazione del cibo era regolata dalla teoria galenica degli umori: caldo, freddo, secco e umido hanno modellato il nostro gusto”. E le tavole signorili com’erano allestite? “Erano simili a quelle francesi o del duca di Milano. C’era un cuoco specializzato, chiamato maestro, e le tavole venivano preparate di volta in volta nella grande sala. Sul tavolo si disponevano dei taglieri individuali su cui si appoggiava un piatto di pane che, a fine pasto impregnato dai diversi sughi, veniva dato ai poveri”.
Domani pomeriggio alla presentazione del libro, che si svolgerà nei giardini del Palazzo Reale, dopo i saluti del presidente dell’Ars Gianfranco Miccichè e di Patrizia Monterosso direttrice della Fondazione Federico II, interverranno i professori Ninni Giuffrida e Giovanni Travagliato, modererà il giornalista Davide Camarrone.