Il passaggio di consegna, per chi cresce tra i filari, non è una novità. Lo sa bene Isabella Pelizzatti Perego, che con i fratelli Emanuele e Guido conduce la cantina ArPePe, nata nel 1860 dal trisnonno Giovanni, rinata nel 1984 grazie al padre Arturo e cresciuta sotto la loro guida dal 2004. In Valtellina, sui terrazzamenti di Sassella, Grumello e Inferno, l’azienda ha attuato cambiamenti importanti in vigna e in cantina: «Senza tradire la visione di nostro padre Arturo, abbiamo ampliato il catalogo con vini più giovani e di pronta beva, lavorando su nuovi ettari di vigneto, e oggi sono 15 quelli da cui otteniamo i vini ArPePe» spiega Isabella. Vini che raccontano la rinascita di un territorio difficile, ricco di pendenze, lavorato interamente a mano in regime di agricoltura integrata. Qui il nebbiolo valtellinese sta allea Alpi Retiche, come in Campania il greco sta a Tufo.
Angelo Muto, alla guida di Cantine dell’Angelo insieme alla moglie Franca Troisi, è un testimone d’eccellenza del vitigno che ha contribuito a cambiare l’identità del comune dell’avellinese. «I miei nonni lavoravano presso la miniera di zolfo, ma queste entrate non bastavano al sostentamento della famiglia, mentre l’agricoltura costituiva un’importante integrazione del reddito». Deviando dalla tradizione di famiglia, che le uve le produceva per conferirle a terzi, Angelo ha deciso di vinificare in proprio a partire dal 2006, memore degli insegnamenti appresi dal nonno. «A Tufo siamo gli unici a coltivare ancora la coda di volpe, un’antica varietà a bacca bianca caratteristica della regione, più leggera e meno strutturata rispetto al greco. Come sosteneva mio nonno, diversificare permette di essere più resilienti e più pronti ad affrontare i problemi».
Il vino buono, pulito e giusto: passione, coraggio e ricerca continua nelle Marche e in Friuli
Non solo eredità familiari e passioni tramandate: a Slow Wine Fair troviamo anche chi, nel mondo della viticoltura, ha piantato radici nuove in territori vocati, come Edoardi Dottori, della cantina omonima a Maiolati Spontini (An). Trentatré anni, Premio Miglior Giovane Vignaiolo nella guida Slow Wine 2024, Edoardo si è nutrito di cultura contadina nell’areale dei Castelli di Jesi, conseguendo gli studi universitari in Viticoltura ed Enologia e un dottorato sull’inerbimento in vigna, che è per lui «il tassello fondamentale nella gestione del vigneto, a maggior ragione nel contesto di eventi climatici sempre più estremi». In pochissimo tempo Edoardo si è imposto come protagonista indiscusso nel mondo dei grandi Verdicchi, dando vita a una viticoltura sostenibile, sartoriale e avanguardista. Ma il suo percorso non si esaurisce qui: «Oggi insegno in una scuola di agraria per trasmettere le mie competenze e la mia passione, e permettere ai miei studenti di apprezzare la bellezza di questo lavoro». Quello del vignaiolo non è infatti solo un mestiere che si apprende, ma una vocazione innata nei confronti del territorio. Ne è la prova la storia di un giovane viticoltore che è “tornato alla terra” nel senso più letterale del termine. Ermanno Maniero, che ha lavorato a lungo come ingegnere sottomarino, oggi coltiva 17 varietà di uva su 14 ettari di terreno in un angolo delle colline di Gorizia. Nella sua azienda, Le Due Torri, non c’è un enologo, né un maestro di cantina. Ermanno fa tutto da solo, dalla vigna alla bottiglia. Da un lato onora la grande tradizione vitivinicola del Friuli e i suoi vitigni autoctoni, come il picolit e il tazzelenghe, dall’altro sperimenta per trovare nuove interpretazioni e ridare vita a questo terroir. «Sto diminuendo la pressione che il lavoro in vigna esercita sul suolo utilizzando nuovi mezzi. Questo riduce al minimo i livelli di compattazione del terreno e ne consente una maggiore aerazione, preservando la sua fertilità».
Oltre il progetto agricolo: quando vite e vita si fondono in Puglia e Toscana
«È la follia ad averci fatto iniziare» afferma Marianna Annio, titolare di Agricole Pietraventosa, a Gioia del Colle, sull’Altopiano delle Murge. Una risposta analoga a quella che danno altri viticoltori di prima generazione come Marianna e suo marito, che alla follia hanno affiancato l’amore e il desiderio di regalare a loro figlio Vincenzo, oggi 23 anni, un futuro diverso: 7 ettari di terreno in cui portare avanti una viticoltura gentile e un’enologia non invasiva, capace di preservare l’identità e la personalità dei vini. «Tutti gli investimenti importanti che abbiamo fatto sono determinati da questo sguardo al futuro. Abbiamo voluto dare a Vincenzo un domani più autentico. Che avesse qualcosa a che spartire con la terra pugliese, e con la Terra in senso lato. E che fosse eticamente corretto». A Pietraventosa tutti i lavori sono ispirati al massimo rispetto per l’ambiente e le risorse del territorio, anche in annate difficili, che hanno visto alternarsi attacchi fungini e fenomeni estremi, oggi sempre più frequenti.
La fertilità del suolo, il suo benessere, è infatti uno tra i principali alleati contro la crisi climatica, di cui si avvertono gli effetti anche tra le colline toscane. Lo ha raccontato Cinzia Merli, che negli anni Ottanta ha avviato con il marito Eugenio Campolmi un progetto pionieristico, Le Macchiole, condotto oggi insieme ai figli Elia e Mattia. «Siamo nati nel 1983, con l’idea di sperimentare e fare ricerca e tanta voglia di battere strade alternative, ad esempio la scelta del monovitigno come tratto stilistico distintivo della nostra produzione». E dopo il vitigno, la sperimentazione è proseguita nel campo della sostenibilità: «Già nel el 2002 avevamo scelto di avere un approccio sostenibile. L’applicazione di metodi biologici, e biodinamici in alcune vigne, coadiuvata da un’attenta gestione agronomica a 360 gradi della vite, fornisce infatti un maggiore grado di resistenza della pianta» spiega Cinzia. Un percorso ancora in divenire, praticato con la volontà di ottenere un vino che possa definirsi buono, pulito e giusto: «Per noi, è un vino prodotto in maniera naturale e onesta, che racconta sé stesso e le persone che lo hanno creato».